Tramonto


Tramonto
Napszálla
László Nemes
Ungheria, Francia
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Conosciuto anche col titolo:
Sunset ... (Venezia 2018)

Judi Jakab (Irisz Leiter)
Vlad Ivanov (Oszkár Brill)
Evelin Dobos (Zelma)
Marcin Czarnik (Sándor)
Judit Bárdos (Szeréna)
Benjamin Dino (Andor)

Distribuzione internazionale: Playtime
Distribuzione italiana: Movies Inspired





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030

Perso a Venezia ma recuperato in sala, grazie ad una distribuzione “evento” (tre sole giornate). Dopo la presentazione veneziana i commenti sono stati quelli di una bizzarra presa di posizione, con giudizi contrastanti ed estremi, considerato da alcuni un vero e proprio capolavoro degno del Leone d'oro, mentre per altri, e non pochi, decisamente negativi tanto da far sorgere il dubbio sull’effettivo valore del regista che alla seconda prova non manteneva le attese (perché con Il figlio di Saul aveva convinto tutti, premio Oscar compreso). Le aspettative erano alte. Evidentemente in molti si sono ricreduti, forse Nemes non è quel grande artista che si credeva fosse. Questo film, purtroppo, non si può giudicare alla prima ed unica visione e sottolineo purtroppo perché probabilmente ha quell’antipatica qualità che si può sintetizzare con la banale battuta “del film che ti cresce dentro”. Ha la forza di lasciarti quel germe che costringe di riprenderlo in esame, ripensarlo, non lascia indifferente: esso scardina quell’assurdo rituale che lo porta ad essere giudicato solo superficialmente il “valore artistico”; qui siamo in un territorio accidentato, un percorso forse difficile ma che fa riflettere. É quel classico film, come tanti altri, che richiede appunto più visioni, zeppo com’è di sensazioni e spunti che vanno dipanati, scoperti, analizzati. Ogni dettaglio sembra spingere a generare un rebus ricco di sguardi metaforici, e ogni enigma si può risolvere giocando sul confronto tra il soggetto e la Storia sia remota che contemporanea.

Irisz, la protagonista in Tramonto, sembra muoversi come Saul, con la cinepresa attaccata al collo ma in questo caso i lunghi piani sequenza si svolgono in spazi molto ampi, dove la profondità di campo evidenzia una diversa ricerca di costruzione dell’immagine rispetto a Il figlio di Saul. Qui la fotografia esalta le ricercate inquadrature. Mentre i primi piani, risultano estenuanti, le inquadrature concentrate sul viso senza espressione e monotonale della protagonista che non esprime mai ne un ghigno ne un sorriso. Questo metodo rischia di confondersi con un compiacimento autoriale che naturalmente indispettisce i più quotati cultori di un cinema più descrittivo non necessariamente “facile” ma con una linearità capace di spiegare quello che succede sullo schermo, ovvero utilizzare più didascalismo (che però il più delle volte è bocciato soprattutto quando utilizzato nei film politici), che sappia offrire una maggiore facilità di lettura. Tutto vero ma anche no: ogni scena sembra ripetersi all’infinito, la protagonista sembra una trottola che si ritrova ad indagare tante situazioni sempre irrisolte, e dove il personaggio maschile, ovvero il proprietario della cappelleria, tale signor Brill è onnipresente, come l’ossessione di Irisz per la ricerca di un probabile fratello di cui non sapeva neanche dell’esistenza. Giunti a questo punto quale conclusione si può trarre? Ancora niente, anzi un certo nervosismo comincia a salire e con questo la noia, personaggi nuovi o nuove tracce e narrazioni non aiutano a districarsi nella storia che anzi si complica. Il mistero si infittisce. Basta, mi sono stufato di tutte queste “patac(c)ate” e la chiudo qui: film capolavoro?
Lemmy Ventura











taccuino 
Umiliazione del rifiuto.

"Lo dicevano che sarebbe tornata"

"Quella porta male, se ne deve andare!"

I Leiter sono morti nell'incendio del loro negozio.

Il mistero si infittisce, il fratello è odiato perché è un assassino. Scomparso.

"Andatevene, questa settimana in questo posto scorrerà sangue"

Contessa sgradevole.

Contessa è vedova, subisce violenze fisiche (e sessuali?)

Stanza misteriosa e sigillata, solo la regina vi è entrata una volta e vi perse uno spillone

(...) 






note di regia
Diversamente da Il figlio di Saul, che aveva un approccio meticoloso, di tipo documentaristico, Tramonto assomiglia a un racconto, a un mistero in se stesso, e lo spettatore viene invitato a partecipare a questo viaggio per trovare, accanto alla protagonista, una strada possibile in questo labirinto di facciate e di strati. Sin dal principio, ho immaginato questo film come uno strumento per immergere lo spettatore in un personale labirinto di ostacoli e di informazioni poco chiare, accanto alla ricerca del fratello da parte di Irisz e, in fondo, del significato del mondo che lei vuole scoprire. Dietro a ogni indizio che le sembra di trovare, ci possono essere informazioni contraddittorie. Dietro a ogni strato, ce n’è uno nuovo che può essere rivelato e la protagonista stessa potrebbe davvero essere all’oscuro del processo che si svolge dentro di lei. Irisz è un personaggio costretto tra luci ed ombre, tra bellezza e minaccia, incapace di affrontare le zone grigie. In questo senso, Tramonto è anche una storia di formazione. 
Questo film, sin dall’inizio, intendeva seguire da vicino la sua protagonista, Irisz, con un approccio drammaturgico molto intimo, insolito per un film in costume, cercando di rompere con i codici tipici della rappresentazione di un passato da cartolina. Non comprendere tutto alla perfezione doveva far parte del gioco. Lo spettatore è sommerso da un mondo sconosciuto, in cui le persone parlano lingue diverse... 

Tramonto è un film che parla della civiltà giunta a un bivio. Nel cuore dell’Europa, al culmine del progresso e della tecnologia, senza che sia mai stata scritta nella storia, la vicenda personale di una giovane donna diventa il riflesso di un processo che rappresenta la nascita del XX secolo.
Un secolo fa, dalla punta estrema del proprio zenit, l’Europa si suicidò. Questo suicidio resta un mistero ancora oggi, anche se gli storici, i pensatori e i sociologi hanno cercato di spiegarlo. Come se una civiltà al suo apogeo avesse già prodotto il veleno che l’avrebbe distrutta. 
Tramonto è ambientato a ridosso della I Guerra Mondiale, nell’Impero Austro-ungarico, uno stato multinazionale, apparentemente prospero, con una dozzina di lingue e tante genti diverse, con le sue fiorenti capitali Vienna e Budapest, il centro culturale del mondo. E tuttavia, in contrasto con questo fiorente scenario, c’è la realtà di forze nascoste che stanno per distruggerlo.
Da bambino ascoltavo le storie di mia nonna, che era nata nel 1914. La sua vita si era svolta per tutto il secolo, preso nel tumulto del continente europeo, attraversato da tutti i regimi totalitari, dai genocidi, dalle rivoluzioni fallite e dalle guerre. Lei è stata, per certi aspetti, l’Europa stessa. E l’Europa, in pochi decenni, ha dimostrato l’ascesa e la caduta della civiltà umana.
Le mie profonde radici europee mi hanno spinto a farmi delle domande sull’epoca che stiamo vivendo e su quelle dei nostri antenati: quanto possa essere sottile la vernice della civiltà e che cosa ci sia sotto. Nel nostro stato mondiale moderno e post-nazionale, sembriamo scordare le profonde
dinamiche della storia e, nel nostro sconfinato amore per la scienza e la tecnologia, tendiamo a dimenticare quanto ci possano portare vicini all’orlo della distruzione. Credo che viviamo in un mondo non troppo distante da quello che precedette la Grande Guerra del 1914. Un mondo totalmente cieco di fronte alle forze della distruzione che nutre nel proprio nucleo. Non siamo lontani dai processi verificatisi sotto la monarchia Austro-ungarica. La storia è adesso, e nell’Europa centrale.

Sono portato a scoprire come l’anima umana e l’anima collettiva della civiltà possano trovare un punto d’incontro. Immaginando Tramonto, ho cercato di trovare il punto di giunzione tra una storia individuale e lo stato del mondo abitato dalla protagonista. È tipica del cinema contemporaneo la pratica di orientare lo spettatore e di rassicurarlo costantemente, ma io ho sempre cercato di trovare nuove strade per presentare al pubblico un’esperienza soggettiva di incertezza e fragilità. Come già in Il figlio di Saul, non intendevo proporre agli spettatori un dramma storico convenzionale. Pensavo che potevamo
ottenere molto di più mostrando il barlume di un mondo senza farlo vedere completamente. L’immaginazione dello spettatore avrebbe fatto il resto.
In un mondo del cinema che si affida sempre meno ad ambientazioni reali e alla presenza fisica, utilizzando invece sempre più i computer e gli effetti visivi, io volevo prendere una posizione in cui pochi ormai credono: il cinema ha a che fare con la magia della fisica, dell’ottica e della chimica. In questo senso abbiamo utilizzato dei set costruiti in una città vera (Budapest), una pellicola foto-chimicamente impressionata e sviluppata, ed effetti autentici sul set. Il fatto che abbiamo realizzato lunghe sequenze complicate e coreografate ha contribuito ad inscrivere questo film nel mondo fisico, un mondo in cui gli spettatori possono credere, non un mondo virtuale creato col computer.
(László Nemes)

idee / parole
Nemes entra nella soggettività di uno sguardo che ha rivissuto e rivive la Storia come una sorta di ripetizioni estenuanti.
Edoardo Bruno (Filmcritica n° 690)



citazione 
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